Fu un pianista ungherese che gli abitava accanto nel quartiere del Bronx di New York City, tale Bèla Wilda, ad avvicinare Astor Piazzolla, ancora bambino, alla musica classica. Il ragazzetto argentino, cui il padre aveva regalato un bandoneon che sonicchiava continuamente, non gli permetteva di studiare quanto il suo maestro Rachmaninov gli aveva raccomandato. Così Bèla Wilda decise che forse avrebbe fatto meglio a coinvolgere Astor nella sua musica e a presentargli Bach e l’universo compiuto della musica classica. (David Toschi – operaclick.com, 03 07. 2017.)
Astor Pantaleón Piazzolla non si fermò più e, se nei tre anni successivi si dedicò esclusivamente all’ascolto e allo studio della musica classica, trovò ben presto la strada per coniugare le sue nuove competenze con quello che era stato da sempre il suo contesto sonoro: il tango.
A tredici anni gli venne chiesto da Carlos Gardel di suonare il bandonéon in una delle sue musiche da film e soltanto qualche anno dopo, nel 1940, all’età di diciannove anni, venne notato da Artur Rubinstein che lo portò a studiare otto anni composizione con Alberto Ginastera.
Fra il 1946 e il 1948 si sviluppa la sua rivoluzione nei confronti del Tango, che completerà nella maniera esemplare che conosciamo dopo la metà degli anni ’50, dopo gli studi di perfezionamento seguiti in Francia con la grandissima Nadia Boulanger che gli consentirono di trovare nel nuevo tango la sintesi fra la musica colta occidentale e la musica della propria tradizione popolare.
Maria de Buenos Aires, è uno dei suoi principali lavori ed è composto nel maggio del 1968, consapevole delle urgenze di quegli anni in cui l’Europa vive uno dei momenti più visionari del primo millennio, mentre l’Argentina subisce tre colpi di stato in sette anni.
Piazzolla, tornato in patria alla fine degli anni ‘50, rimane praticamente isolato dopo che il golpe del 1966 aveva determinato la “fuga de cerebros”, esilio volontario scelto dagli intellettuali e gli scienziati del Paese in mano alla dittatura di Ongania, e si trasferisce nella sua casa di vacanza a Parque del Plata in Uruguay, dove consolida l’amicizia con l’eccentrico poeta uruguagio Horacio Ferrer, che gli sarà collaboratore e librettista per molti anni.
Maria de Buenos Aires,il loro principale lavoro, visionario e simbolico, «più oratorio che opera», è un gioco di Passione in cui il personaggio centrale, Maria, rappresenta sia la Madonna che Gesù, risorgendo alla fine di una tormentata esistenza da prostituta che non le risparmia ogni sorta di violenza.
L’organico della Tango-operita, è per bandonéon e orchestra da camera, una chitarra e una fisarmonica. Maria è scritta per voce folk femminile mentre la voce maschile di El cantor è spesso interpretata da un baritono. A completare il cast la voce narrante del Duende, il folletto.
La produzione inglese di Operaview, ospitata al Bartok Plusz Opera Festival di Mislkolc, ha presentato al Teatro da Camera uno spettacolo solido, ben articolato attraverso le sedici scene della struttura narrativa dell’opera. I protagonisti, affiancati occasionalmente da due ballerini di tango: Bianca Vrcan e Sacha El Masry, hanno dato prova di un’eccellente preparazione che si è ben diluita nelle coreografie disegnate dalla stessa Bianca Vrca.
L’impianto luci, a cura di Sana Yamaguchi, ha contribuito in modo determinante a definire e valorizzare la scena disegnata efficacemente da Jemina Robinson. Alla fine, il lavoro gode di una incisiva impronta complessiva, che rimane e convince. Merito attribuibile alla regia misurata di Natalie Katsou, che ha sapientemente miscelato ogni elemento con l’altro fino a creare una diffusa empatia fra pubblico e palcoscenico.
Béatrice de Larragoïti, incantevole soprano franco-brasiliano, indossa le vesti di Maria de Buenos Aires con pertinenza ed eleganza scenica. Purtroppo la tessitura del ruolo, non a caso più frequentemente affidata a un mezzo o a un contralto, non le permette di risolvere completamente le parti più drammatiche del canto, risultando un po’ “vuota” nella zona più grave.
Nemmeno Leonel Pinheiro, tenore, esce dominatore del ruolo di Payador, ma fa comunque bene, dimostrando un bel colore adamantino e un certo squillo nell’acuto che fa ben sperare in ruoli a lui più congeniali.
Trionfatore della serata, l’istrionico e infaticabile Matthew Wade, che fornisce a Duende i caratteri esemplari del personaggio, dimostrando doti attoriali e impostazione vocale di sicuro mestiere.
Il Deco Ensemble: contrabbasso, violino, piano, accordéon e chitarra elettrica, interpreta nel migliore dei modi la partitura, rivelando le squisite sonorità e le complesse armonie che hanno determinato la fortuna di questo sempre affascinante lavoro di Astor Piazzolla.
Teatro in visibilio alla fine e grandi ovazioni per tutti i protagonisti.